Di Milly Curcio

Lo spazio corto

La narrazione del cortometraggio si concentra per definizione in un tempo breve. A volerla vedere in termini grammaticali, diremmo che è necessario che la frase sia capace comunque di un discorso coerente in piena sintonia fra linguaggi coesistenti ed effetti di senso interagenti. Solo che occorre una seria distinzione a proposito di questo provocatorio richiamo alla grammatica: il film può sì essere calibrato sulla breve durata, ma in modo tale che al suo interno agiscano più livelli di linguaggio, ad esempio la parola scritta, la parola del sonoro, il sonoro musicale, l’immagine in movimento. Ecco perciò che il limite di tempo, che connatura la forma creativa specifica, produce esso stesso una concentrazione complessa di fattori in relazione, e simultaneamente rinuncia o sorveglia rigorosamente quelle funzioni comuni allo sviluppo dell’intreccio come la sospensione, il rinvio, il flashback, la ripetizione, che altrimenti porterebbero a uno stravolgimento della iniziale essenzialità narrativa.

Per comprendere in che modo si può articolare il discorso breve filmato, e in che modo organizza al suo interno unità brevi così come avviene nel testo della poesia, prenderò a riferimento alcuni dei cortometraggi che Vittorio De Seta, maestro del genere, ha realizzato fra il 1954 e il 1959[1]. La soluzione più frequente negli undici documentari a cui il regista lavora in questo primo periodo della sua produzione riguarda una scelta formale piuttosto comune tanto nelle narrazioni popolari quanto nelle letterature classiche: raccontare l’avvenimento inquadrandolo nell’arco di una giornata. Ciò consente di stabilire un’unità di tempo narrativo e insieme di lasciarsi guidare dalla linearità non dispersiva del racconto in un movimento progressivo che chiude naturalmente il suo cerchio al termine della giornata. L’elemento forte e nient’affatto comune, che dà unità ed evita dispersione nel corso del montaggio della gran massa di appunti filmati sulla pellicola direttamente dallo stesso De Seta, è la scelta (non immediata, come vedremo) di dare un ritmo alla storia attraverso voci, canti, e suoni naturali, raccolti nel medesimo ambiente della registrazione delle immagini, ma in momenti diversi. Potremmo dire che il sonoro costituisce il codice di raccordo fra le unità brevi dell’intero testo filmato e gli fa da cornice. Si associano così complementarmente i due registri del discorso, e si organizzano in segmenti discontinui e complementari le fasi in cui si sviluppa progressivamente il racconto. Insomma, la focalizzazione sull’immagine visiva e sull’immagine acustica avviene  in tempi differenti, e costituisce un supporto integrato e armonizzato, non importa se non sempre perfettamente coincidente. E’ evidente che  questa precisa scelta integrata fra immagini visive e immagini acustiche, raccolte come appunti inizialmente separati sì ma in sintonia con la medesima situazione in cui sono calati la macchina da presa e il microfono, consente al regista di operare una scelta decisiva: l’abolizione dello speaker, del commento audio, della parola invasiva e tale da rischiare di essere percepita come estranea e stonata rispetto alla dialettalità che dà culturalmente senso al racconto del film. La caratterizzazione del dialetto come lingua di quelle autentiche isole culturali, sorprese a metà degli anni Cinquanta al limite di una svolta epocale, in Calabria, Sicilia e Sardegna, e tuttavia marcatamente presenti nella formazione e nella crescita dell’individuo e della collettività, coincide per De Seta con la scelta di un occhio non partecipe e discreto che inizialmente descrive la suggestione degli ambienti, i colori, i rumori, i gesti, le espressioni, e poi precipita all’interno dell’avvenimento, dunque optando per un punto di vista narrativo interno alla storia stessa, non di fronte, non dall’altra parte, non separato.

Vorrei chiarire che le riflessioni intorno all’opera di De Seta di solito dànno per scontato la definizione di presa diretta della realtà, senza che da parte di chi assume una tale considerazione vi sia il minimo dubbio sull’ambiguità della definizione, sia pure intesa come fedeltà al vissuto. La realtà è concetto di per sé non lineare, non univoco, e non semplice; possiamo suggerire che la scelta di un punto di vista fa chiarezza sul modo di guardare a una parte di realtà, di illuminarla, e persino di inventarla creativamente, come avviene nel grande prodigio del cinema.

Studiando nei suoi particolari la costruzione narrativa del cortometraggio di De Seta, genere breve per definizione e per necessità, non si può che far tesoro di quanto sostiene Lotman a proposito della narrazione cinematografica «che mette a nudo la meccanica di ogni narrazione artistica»[2]. Inoltre, e sempre con Lotman, considereremo questo tipo di narrazione «come una successione cumulativa di quadri. La struttura stessa della pellicola ce ne dà il diritto. I quadri dividono la pellicola in frammenti identici di fronte ai limiti dello schermo (…). Con ciò si ha una curiosa proprietà puramente topologica della parte della narrazione artistica: ha gli stessi limiti del tutto»[3]. Così che, grazie al movimento della macchina da presa ci si avvicina notevolmente o ci si allontana dall’oggetto, tanto che «lo stesso schermo può contenere alcune migliaia di persone o il dettaglio di un viso». Ne deriva la grande importanza per il piano della sequenza, e anche noi considereremo che «il “piano” non è semplicemente la grandezza della figura, ma una relazione di questa con i limiti»[4]. E’ per questo che nella relazione fra piani e nelle sequenze organizzate secondo la linea del racconto di De Seta, i limiti sono sempre ben percepibili da parte dello spettatore. I limiti o vincoli attivi, a cui fa riferimento il grande semiologo, sono nel nostro caso identificabili in precisi indicatori audio, nel movimento attivo dei personaggi, nelle annotazioni d’ambiente, nella posizione della macchina da presa più frequentemente all’altezza dell’azione e delle figure, e soprattutto nell’identificazione di un inizio e una fine della narrazione, scanditi da una precisa prospettiva (ad esempio, la concentrazione nell’arco di una giornata tipica, ipotetica e non effettiva).

Ho parlato poco sopra di scelta non immediata per la soluzione di abolire lo speaker, e nel farlo mi riferivo al documentario Pasqua in Sicilia del 1954 (da non confondersi con l’omonimo cortometraggio dell’anno successivo), la prima pellicola firmata da De Seta, nata dalla collaborazione con Vito Pandolfi (in bianco e nero, in 16 mm., durata 10’), che rappresenta la prova generale dell’intero lavoro del regista calabrese. In effetti quella prima pellicola presentava grossi limiti, di incoerenza nel montaggio, una voce fuori campo piuttosto ambigua rispetto al proposito iniziale dell’autore, e soprattutto la mancanza di un ritmo riconoscibile attraverso l’identificazione delle sequenze e del punto di vista, che di lì a poco De Seta sperimenta nel cortometraggio Lu tempu di li pisci spata, che dà il via a una serie di dieci documentari diretti nell’arco di sei anni con una sostanziale omogeneità di tecnica e di tematiche esplorate.

Gli occhi e le orecchie del racconto

Il titolo in dialetto non dà adito a dubbi: Lu tempu di li pisci spata ( 1954, durata 9’ 44’’, a colori) è parlato sulla pista del sonoro in una strana commistione di frasi, grida, brusii, richiami, brontolii, presi direttamente dalla lingua locale. Se sia quella di Bagnara Calabra, Scilla o Ganzirri, non lo sappiamo, e forse solo l’orecchio fine del dialettologo riuscirebbe a discernere nel fluire dei suoni articolati, nelle cadenze, nella musicalità, e nei ritmi percussivi della voce dei parlanti, l’identificazione esatta della provenienza, che probabilmente è mista e comune a quelle aree calabresi e siciliane che dànno sullo Stretto di Messina. La scelta del colore è determinante e coraggiosa, e soprattutto fortemente indicativa in quanto privilegia in questo caso le tonalità prevalenti che sono l’azzurro del mare, il bianco degli indumenti e delle spiagge, il rosso del sangue, i colori entro i quali è già inscritta la narrazione.

Più volte e nelle numerose interviste che riguardano i suoi documentari De Seta ha confessato onestamente: «Non sapevo niente», e questo suo non saper niente lo porta ad entrare “a mani vuote” e probabilmente senza pregiudizi e con naturalezza incuriosita ed emozionata nella sperimentazione di un’avventura della conoscenza che avviene attraverso il linguaggio audiovisivo. Gli anni in cui si dedica al ciclo degli undici documentari, a partire cioè dalle prime esperienze del 1953, sono gli stessi in cui arriva la televisione nelle case degli italiani, avvenimento che era destinato a lasciare un segno determinante nella formazione della lingua parlata dagli italiani, e purtroppo inizialmente interpretato come strumento di avversione nei confronti dei dialetti, anche se non della civiltà contadina e pastorale, soffocata nei suoi caratteri originari dal nuovo corso economico della storia occidentale, e lentamente e maldestramente rivisitata nel decennio successivo. Nello stesso 1953 c’è anche chi, come Italo Calvino, desidererebbe avviare addirittura la propria battaglia contro il dialetto tanto nel cinema quanto in letteratura, «contro il dialetto a urli incomprensibili di certi film anche buoni, e contro la rivalutazione della poesia dialettale in certi ambienti letterari»[5]. E sempre nel 1953 campione di incassi nelle sale cinematografiche italiane è un film che media la condizione dialettale più viva nella provincia italiana con il paradosso e l’ironia della giovane commedia all’italiana: si tratta  di  Pane, amore e fantasia, di Luigi Comencini.

In questo clima Vittorio De Seta attraversa con una camera in spalla e un ridottissimo metraggio di pellicola a disposizione le realtà visibili e udibili al di qua e al di là dello Stretto. Sono state dette e scritte molte cose su questo primo effettivo capitolo dell’attività documentaristica di De Seta, e però raramente si è sottolineato, e sicuramente non con la dovuta convinzione, che il lavoro nasce come prova sperimentale “dal basso”, per tentativi valutati nel momento delle riprese audio e video, privo di un’intenzionalità preventiva e tecnicamente senza un soggetto o un trattamento già definito, anche se sufficientemente maturo per ciò che riguarda il progetto di ricerca dell’autore e le scelte del linguaggio filmico.

Analizziamo ora le caratteristiche di Lu tempu di li pisci spata, come documento di brevità. Il film inizia con la parola scritta, un incipit didascalico che scorre sullo schermo sopra l’immagine ferma in controluce dei pescatori, anche un non colore che determina la percezione delle prime ore del giorno che sta per nascere. La catena umana che trasporta gli oggetti del lavoro quotidiano è già indice di continuità e ciclicità: ora il testo ci parla di una vicenda collettiva, non di una storia individuale, e l’assunto sarà ben chiaro per tutta la durata del filmato, specialmente nei rapidi primi piani che vanno a cogliere la particolarità del soggetto ma per inserirlo nel movimento collettivo. La didascalia dice testualmente: «Nella bella stagione il pesce spada viene a deporre le uova nelle tiepide acque che separano la Sicilia dalla Calabria. Qui l’uomo lo attende per ucciderlo. E’ una pesca antichissima le cui origini si perdono nel buio dei tempi. Di essa cantano gli uomini nella lunga attesa. Di essa cantano le donne intente alla fatica quotidiana». Essa potrebbe trarre in inganno lo spettatore: contiene allusioni mitiche non meglio specificate, la percezione di un lascito lontanissimo nel tempo, di un’antichità visibile e in sostanza ferma davanti a noi, e l’ambiguità di questi uomini che, persino nella lunga attesa del loro durissimo lavoro, canterebbero proprio quelle canzoni popolari (in effetti, non questo udremo nel corso del film), e delle donne ossessionate nella loro intensa giornata al punto da cantare proprio motivi connessi alla pesca del pescespada. Per quanto breve, l’incipit verbale contiene elementi ridondanti, necessari però a giustificare, anticipandole, alcune scelte tecniche di cui ci renderemo conto di qui a poco. Dopo i 30 secondi della lettura, si passa dalle prime sequenze “misteriose” di uomini (per definizione “senza tempo”) che portano pesi in controluce, alla prima sequenza: in campo la barca con l’albero per l’avvistamento, e dietro due piccole barche a remi in movimento sul mare calmo all’alba (vediamo la luce solare percepita dietro il profilo della costa e la luce specchiata dalle acque). La localizzazione è ampia: «Stretto di Messina -1954» dice la didascalia bianca sulla destra, e non specifica se siamo sulla costa calabrese o su quella siciliana, però ha la funzione di portare al presente il tempo dell’azione. Nella sequenza successiva una delle barche a remi con sette uomini sfila davanti a due vecchi che guardano dalla terraferma. Poi, sempre dalla terraferma, una vedetta in legno e l’uomo che sorveglia il mare, ormai investito dal sole. Le azioni iniziali sono, appunto, segmenti brevi spezzettati: l’insert improvviso di uno scoglio, una bambina in bianco (persino i nastrini ai capelli sono bianchi) guarda dalla riva verso il mare lontano, e finalmente (dopo 1’ 8’’) la cinepresa segue una barca in mare. La colonna sonora portante è il canto maschile dei pescatori. L’avvistatore sale la scala di corda verso la cima più alta e, particolare interessante, ha un cappello bianco, pulito, come quello dell’uomo che guarda dalla riva, come tutti i cappelli dei pescatori, compreso il fiociniere con il sottomento. L’attesa è un uomo sdraiato sulla prua. Qui dal mare si ritorna rapidamente a una visione da terra: due bambini con delle aste in acqua, una donna che porta un enorme fardello di ceste sulla testa, le donne sparse sulla riva bianca, là dove versa un ruscello, per lavare i panni. Strofinano, pestano con i piedi, li risciacquano a mare, e il ritmo è segnato dal canto femminile che occupa pienamente il sonoro. L’annotazione serve a far percepire la continuità delle azioni nell’ambiente circostante, e a dare una quinta scenica alla compattezza uniforme del paesaggio marino. Finalmente (3’12’’), valutando le scansioni temporali come segmenti o lasse del discorso, l’urlo concitato dell’avvistatore e il suo ossessivo prolungarsi, che diventa il nuovo sonoro, insieme al costante sciabordio del mare, commentano la visione del salto del pescespada, e la fuga fra le acque. Questo urlo rauco, prolungato, che s’alimenta di parole per noi incomprensibili, suoni gutturali, bilabiali, palatali, segue tutte le fasi dell’avvicinamento, e sembra una voce di incitamento esterno ma anche la voce della coscienza interiore delle squadre di pescatori, il loro e anche il nostro ritmo, mentre il fiociniere si prepara con la lunga fiocina in piedi sulla prua. La ripresa segue dall’alto, dall’altezza dell’avvistatore, la piccola barca dell’inseguimento. Due rapide inquadrature in primo piano dei vogatori, e voci non concitate di incitamento di pescatori s’alternano alla voce fuori campo incalzante dell’avvistatore. Il fiociniere lancia (siamo poco dopo la metà del film: 5’57’’), colpisce il pesce e si dà spago alla sagola che scorre. Adesso i volti in primo piano seguono le fasi dell’inseguimento mentre i pescatori remano in piedi sulle imbarcazioni, e il pescespada esausto (6’40’’) viene tirato sulla barca (frase ripetuta percussivamente da una stessa voce esperta: «Prepàrati ‘u ganciu»).

Il taglio della testa, del rostro, il rosso che scorre sull’argenteo pesce al sole, la pesa sul mare, sono brevissime sequenze per l’immagine della cattura, alla quale il narratore muto confronta visivamente in parallelo le donne che portano pesi sulla spiaggia, i panni lavati, e un vecchio che passa sulla riva. Nel determinare rapidamente questo parallelismo la scelta del sonoro ha un valore fondamentale: da un lato il taglio del rostro del pescespada avviene in silenzio, seguito solo dallo sciabordio delle acque marine; dall’altro le donne sfilano in una splendida fotografia sulla spiaggia anch’esse in completo silenzio. Così, quando le due imbarcazioni rientrano in controluce e in controluce gli uomini anonimi tornano a riva, percorrendo in senso contrario al mattino il nostro campo visivo, è sempre la colonna sonora del silenzio, sia pure nella concitazione di marinai e piccoli aiutanti presso le barche, a sottolineare il momento. In questo caso la momentaneità non è rapida, e appartiene alla retorica della brevità.  Che ci sia il tramonto anche davanti ai nostri occhi, comunque lo deduciamo da una lampara accesa su una barca, mentre vecchi, bambini  e donne assistono al rientro. Colonna sonora: il canto maschile per la danza.

Sotto la lampara sulla spiaggia, al suono di una chitarra (inquadrato il marinaio suonatore), i bambini ballano una tarantella, finché subentra il silenzio e il silenzio vince sul canto che s’allontana, e un’altra barca questa volta con la lampara viene calata a mare per la pesca notturna.

Il racconto si conclude con il ciclo del giorno, ma non si ferma il lavoro che ha la sua fase notturna, e dunque l’immagine sottolinea la continuità inarrestabile del fare, del movimento, della sopravvivenza di uomini che, se si fermassero, avrebbero la brutta sorpresa di essere catturati, proprio loro, come il pescespada dall’inesorabilità dell’esistenza. Le uniche pause di questa giornata sono scandite dall’attesa, dal ballo e dai canti al limite fra il giorno e la sera, e dai vecchi che passano e guardano, e dai bambini che però si preparano a quello che pensano sarà il loro destino di futuri pescatori.

In meno di dieci minuti è condensato un intero mondo che, secondo la narrazione di De Seta, non conosce sosta, e la durezza, la muscolarità, la sopportazione fisica, diventano elementi quotidiani di una sapienza ritmata fino all’estremo della giornata, senza alcuna dispersione e senza tentennamenti o indugi superflui. L’immagine del mare, della spiaggia, della partenza, dell’inseguimento, del lavoro delle donne, dell’arrivo, forma un tutt’uno di frammenti brevi di un puzzle, brevi perché segmentati; l’insieme è guardato da un punto di vista unificante che in questo filmato, a differenza di altri cortometraggi di De Seta, non inquadra il nucleo familiare così come non stringe il campo sulle singole personalità, perché il movimento è corale, il ritmo è nell’insieme, la voce appartiene a uno e a tutti, e sembra a un certo punto una voce interiore che ritma il tempo dei pescispada e degli uomini che da essi dipendono, come tempo dell’esistenza.

[1] In questo capitolo faccio riferimento all’edizione dei cortometraggi di Vittorio De Seta restaurati dalla Cineteca di Bologna e pubblicati nell’ottobre 2008 con il titolo Il mondo perduto. I cortometraggi di Vittorio De Seta. 1954-1959, Feltrinelli, Milano, 2008, che comprende anche il volume La fatica delle mani. Scritti su Vittorio De Seta, a cura di  Capello M. Mi sono stati di grande aiuto per comprendere in generale il lavoro del regista i materiali messi a disposizione dalla Cineteca della Sardegna, a Cagliari, e dalla Cineteca della Calabria, a Catanzaro, in particolare il fascicolo senza data, ma ritengo del 2002, che riporta anche un’utile intervista a De Seta, a cura di Altieri A., Attanasio E., Catrambone K., Gallucci P., Levato D., Scarfò G., dal titolo I documentari di Vittorio De Seta. 1954-1959.   Altrettanto utili per un approfondimento del nostro tema sono i  volumi: AA.VV., Il cinema di Vittorio De Seta, a cura di Rais A., Maimone editore, Catania, 1995;  Vittorio De Seta. Una vita d’autore, a cura di Maffettone A. e Soci E., Istituto Paolo Valmarana, Bassano del Grappa, 1989; e Vittorio De Seta. Il mondo perduto, a cura di Fofi G. e Volpi G., Lindau, Torino, 1999.

[2] Lotman J. M., La struttura del testo poetico, trad. it. di Bazzarelli E., Klein E., Schiaffino G., Mursia, Milano, 1976:  305.

[3] Ibidem

[4] Lotman J. M., op. cit.:  306.

[5] Cfr. I. Calvino, “Il realismo italiano nel cinema e nella narrativa”, Cinema Nuovo, 1 maggio 1953: 262; ora in ID., Saggi.1945-1985, a cura di Barenghi M., tomo II, Mondadori, Milano, 1995: 1890.

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