Di Luigi Tassoni – leggi qui la prima parte

Le donne maltrattate

Era, dunque, inevitabile che anche per La città delle donne l’immagine di Simenon campeggiasse. Forse solo per un estremo pudore Fellini non la coinvolge in quella che crede una irriverenza, e all’ultimo momento decide di non allineare il ritratto dello scrittore fra i ritratti dei seduttori («L’ambiente del ring dovrebbe essere tappezzato da posters, gigantografie con vari temi e da una galleria di ritratti dei piú leggendari rappresentanti della potenza sessuale maschile, vere immagini sacre della virilità: Don Juan, Enrico VIII, Casanova, Gianni Agnelli» (carteggio, p.76). In questa stessa lettera, del 15 ottobre 1979, Fellini racconta a Simenon delle scene delle cosiddette ‘’visioni”: immagini seducenti e irriverenti che dolcemente lo cullano, tanto da confessare allo scrittore che non vorrebbe mai uscire da questa zona del film.

Ennesimo attegiamento in una lettera precedente, del 22 luglio 1979, nella quale la richiesta della presenza garante di Simenon viene fuori timidamente: «Un pensiero che (…) mi rallegra è questo: avere qui sul set il mio amico Simenon, e stare qui in mezzo a tutte queste donne, tutti e due insieme. Come sarebbe bello se venisse! Forse riuscirei perfino a continuare a fare il film con animo piú leggero» (carteggio, p.71).

A lavoro ultimato, Fellini al suo amico Simenon (il 29 dicembre 1979) confesserà tutto il proprio imbarazzo per aver realizzato un film ingrato verso la donna: «Il sentimento di disagio che provo, caro Simenon, credo sia dovuto a questa mia tardiva consapevolezza, di aver fatto cioè un film sulle donne (ma in effetti mi pare che il film sia su di un uomo) come lo poteva fare un ragazzaccio impaurito e insolente, allarmato e spavaldo. Non mi sembra giusto, ecco. Ed ora che è finito mi sento colpevole. Nel film non c’è mai un momento di gratitudine, di riconoscenza, per tutta l’immensa gioia che nella vita la donna ci dona con disinteressata generosità» (carteggio, p.82) .

Sincera o no, l’autocritica di irriverenza nei confronti del femminile termina con questa sdolcinata affermazione, con questa confessione che sembrerebbe piú portata verso un femminile materno piuttosto che verso quello febbrilmente seducente che costituisce il motivo conduttore del film.

Fellini irriverente forse: e non sa, o forse fa finta di non sapere, che molto più irriverenti di lui furono certi pensatori della filosofia greca, e altri che da Plotino a Giordano Bruno, considerarono il caotico femminile come forza irriducibile, che espelle e attrae, irriducibile alla singolarità e invece immaginabile solo nel suo moltiplicarsi e nel moltiplicare. La donna come molteplicità che non ferma il senso della vita, e anzi lo incoraggia all’infinito, lo porta verso una necessaria indeterminatezza: non è forse questo un motivo conduttore della Città delle donne?

Le letture dei poeti

Per tanti motivi, dunque, i film di Fellini godono di grande fortuna presso i poeti. E non è certamente casuale che un poeta, ovvero Piero Bigongiari, analizzi in questi termini l’immagine di Fellini in uno scritto del 1981:

E (…) per esempio certa immagine estesa di Fellini, cioè un’immagine che parla attraverso diversi punti focali contemporaneamente, è sí poesia filmica, in quanto poesia dell’immagine in movimento, ma ciò forse è dovuto al «grande angolare» psichico che il romanzesco, se non proprio questo o quel romanzo, ha inoculato nella plurifocalità dell’immagine novecentesca, come una gelatina che bolle sotto i nostri occhi cupidi di sorprese «profonde»in superficie. De profundis clamat ad te, Domine, imago mea.

D’altronde, per esempio, Fellini non vuol sapere quello che fa, o che sta per fare. Vedete a qual punto il romanziere ha ceduto la penna alla manovella. (Cinema e romanzo.I segni di un linguaggio, in Riccardo Donati, L’invito e il divieto. Piero Bigongiari e l’ermeneutica d’arte, Firenze, Società editrice fiorentina, 2002, pp.181-182).

Né è casuale che con un altro poeta, Andrea Zanzotto, Fellini abbia realizzato una collaborazione costante: per il Casanova (estate 1976), per La città delle donne (1980) e per E la nave va (1983). Quando Fellini scrive a Zanzotto, nel luglio 1976, per chiedergli di scrivere quelli che saranno i versi incantatori nel veneziano del Casanova (intitolate nell’insieme Recitativo veneziano e Cantilena londinese costituiranno le prime due parti del libretto Filó, Venezia, Edizioni del Ruzante, 1976), dimostra anche, come giá con Simenon, una grande perizia di lettore, e in questo caso di lettore di poesia. Seguiamo questa lettera, che ha la qualitá di un pregnante saggio sul processo creativo del linguaggio. Scrive Fellini:

«vorrei tentare di rompere l’opacità, la convenzione del dialetto veneto che, come tutti i dialetti, si è raggelato in una cifra disemozionata e stucchevole, e cercare di restituirgli freschezza, renderlo piú vivo, penetrante, mercuriale, accanito, magari dando la preferenza ad un veneto ruzantino o tentando un’estrosa promiscuità tra quello del Ruzante e il veneto goldoniano, o meglio riscoprendo forme arcaiche o addirittura inventando combinazioni fonetiche  e linguistiche in modo che anche l’assunto verbale rifletta il riverbero della visionarietá stralunata che mi sembra di aver dato al film» (Filó, p.7). Scopriamo un Fellini, che come avrebbe fatto con il suo Nino Rota, suggerisce al poeta qualcosa, una scia significante, e gliela suggerisce proprio mormorandola all’orecchio, e lo fa con grande passione oltre che perizia («non è forse piacevole lo stesso farneticare su intenzioni e compiutezze ideali anche se impraticabili fino in fondo?», Filó, p.8). Tanto che arriva a citare i versi dello stesso Zanzotto («Dolce andare elegiando come va in elegia l’autunno» ecc), e commenta: «Mi sembra che la sonorità liquida, l’affastellarsi gorgogliante, i suoni, le sillabe che si sciolgono in bocca, quel cantilenare dolce e rotto dei bambini in un miscuglio di latte e materia disciolta, uno sciabordìo addormentante, riproponga e rappresenti con suggestiva efficacia quella sorta di iconografia subacquea del film, l’immagine placentaria, amniotica, di una Venezia decomposta e fluttuante, di muschiosità, di buio muffito e umido» (Filó, pp. 9-10).

Fellini indugia qui sulla materialità del linguaggio poetico, sulla fonicità che lo impressiona in misura uguale e parallela alla visività delle sue scene: è un profilo generico, la scia, la traccia, ossia un insieme di segni che determinano anche involontariamente il vero e proprio messaggio: dunque non parte da un universo motivazionale, ma da un universo di indicazioni, tracciati di senso, elementi della fonicitá e della visività. Fra l’altro, questa iconografia subacquea del film, così ben spiegata per ragioni percettive, non può che rimandare la nostra memoria al Nettuno del sogno confidato a Simenon.

Non so come, perché l’interlocutore di Fellini era tra i meno facili e i più autonomi della storia poetica contemporanea, non so come, ma Fellini risce nel miracolo di avere da Zanzotto un nucleo di versi che funzionano per i film e funzionano anche autonomamente, nella loro dignitá di poesia: succede per le cantilene del Casanova, per il discorrere seducente dellaCittà delle donne, per i cori di E la nave va.

Dall’altra parte Zanzotto scrive addirittura un saggio, uno dei suoi pregnantissimi saggi, che èdel 1980 e si intitola Ipotesi intorno a ‘’La città delle donne” di Fellini (lo cito dall’edizione delle Poesie e le prose scelte, a cura di Stefano Dal Bianco e Gian Mario Villalta, Milano, Mondadori, 1999). In questo scritto Andrea Zanzotto coglie nel film la presenza di un protagonista che è un io sdoppiato che «si gemina in un altro io che appunto è un altro» (p.1237). Sdoppiamento che somiglia più a una moltiplicazione, parallelamente e anzi specularmente rispetto alle molteplici occasioni di incontri e attraversamenti del femminile vissute dal protagonista. Perciò, «’’l’autore”, il ‘’protagonista” si è formato e si è consumato nel rapporto con le singole abitatrici dell’intera città» (p.1238), di conseguenza, secondo Zanzotto, rimane una casella vuota nell’impossibile struttura della città, che «diventa così la ‘’natural burella” per cui si evade: o al fondo del paradiso o all’apice dell’inferno» (p.1238). Per cui sulla scia della citazione dantesca, il poeta sottolinea che Dante è estremamente presente nel film, «ad ogni crocicchio, interferenza, occasione» (p.1238). In tutto il viaggio felliniano, Zanzotto peró scopre il vuoto molteplice delle mille figurazioni femminili, come all’uscita da un girone infernale costituito da voci, offese, pungolamenti, perché «la sessualitá (…) rimane comunque il primo enigma da cui prendono esistenza i gemelli eros thanatos» (p.1240). Che è un modo colpevole di interpretare la sessualità, il tentativo di rendere filmicamente manifesta quell’attrazione per il femminile considerato spesso come enigma e perció tenuto nel nascondiglio della coscienza, inspiegato nella mente-psiche, eppure esplorato nella realtà e nel film (che in questo caso stanno ai capi opposti dell’esperienza). Ed è un modo generazionale di intendere il femminile, molto diverso dalla gioiosa opportunità di vita che l’incontro e la relazione con il femminile puó dare a qualsiasi uomo, su un piano di seduzione a più ampio raggio. E qui, come per Simenon che, lo ricordo, parlava di «ragazzi cresciuti», Zanzotto entra nell’operatività dell’ingordo fanciullo Fellini, in un brano che vorrei proporre per intero, data la sua importanza (per la qual cosa mi scuso con il mio lettore), in quanto definisce il processo di consumazione delle immagini felliniane, ovvero il loro allontanarsi da qualsiasi pretesa di emblematicità (all’opposto dei realisti), lasciando nello spettatore almeno il senso del dubbio, di qualcosa che deve passare, che si puó dissolvere da un momento all’altro, eppure c’è stato:

L’ingordo fanciullo Fellini, tutto proteso alla manipolazione di oggetti, di materiali di ogni genere, di ciarpami, di lustrini, di bibelots da abolire o da rimontare, artigiano degli spiriti e di congegni in apparenza inutili, celibi, in un film come La città delle donne si porrá più che mai dalla parte in cui a forza di rimestare gli oggetti li si trasforma in macchine, le quali a loro volta partoriranno il dio. Un dio momentaneo, scintillante come una goccia di rugiada, gremito e torpido come un uovo, multiocchiuto e feroce come un riflettore da diecimila, onnipresente come nebbia in trascorrimento, in dissoluzione. (p.1246)

Dietro le quinte

Dopo questa signigicativa lettura di Zanzotto, che mette in luce il cosiddetto «genio»felliniano, irriverente e attraente, attratto e perso dentro le proprie immagini, mi permetto di andare per breve dietro le quinte, anche del film di cui stiamo parlando, La città delle donne, oltre che della mia vita. Per me il film, che è una straordinaria macchina narrativa sulla quale altrove mi soffermerei volentieri, è anche condensato in una sola immagine e in una sola fra le mille donne che vi compaiono. Si tratta di una delle due soubrettine che ho conosciuto bene e frequentato, Sara Tafuri, che compare seducente con il suo leggero strabismo, seducente ma non troppo, perché nella vita la sua seduzione era fatta di un entusiasmo naturale, che ovviamente non trapela da quella che in fondo era una particina, anche se importantissima per una quasi esordiente, a fianco di Marcello Mastroianni. Per un cinico destino la sorte si è infuriata su quel sorriso e su quel corpo: a causa di un brutto incidente d’auto il coma, la devastazione fisica, e la quasi immobilità di oggi, hanno compiuto un’opera impietosa. Il film per me oggi, che l’ho rivisto da solo in occasione di questo convegno di Budapest, non può che rappresentare anche un documento crudele, che dà alla splendida apparizione di quella creatura ciò che la vita le ha tolto.

Memoria e desiderio

Infine vorrei dire che memoria e desiderio sono indissociabili in Fellini, come nel piú grande poeta europeo moderno, ovvero Petrarca. È la memoria a creare il flusso del racconto, il distacco, l’ironia, l’illusione: frammenti di immagini che sono il senso di ogni esistenza, quando si sa in partenza che niente è recuperabile.

Nei film di Fellini non c’è oggettività né progettualità narrativa. Chi racconta? Chi racconta è, come in poesia, la soggettività immessa, frantumata e alla meglio ritrovata nel fluire dell’immagine e del suono. Peccato che Gilles Deleuze non se ne sia accorto nei due splendidi volumi dedicati all’immagine del cinema, riservando a Fellini poche e insignificanti battute!

Mentre James Hilman parla in un’intervista (‘’La Repubblica”, 1 novembre 2003, p.33) di sentimentalismo felliniano: «Nel nostro mondo malato di freddezza e minimalismo -egli dice-, il sentimentalismo è un trionfale riscatto». Non so, e anzi dubito che sia una dote precipua degli italiani, come sostiene Hilman, e tuttavia il sentimentalismo come chiave interpretativa per Fellini è estremamente riduttivo. D’accordo, il calore della memoria, dei desideri, delle emozioni, se non è freddezza crea legami con il mondo. Non conosco altra parola: è il pathos dei greci: a volte un flash che comunica quell’immagine rimasta nel vuoto della psiche come nei muscoli dello stomaco. Lo sguardo di Giulietta degli Spiriti, il bianco dello sceicco, la voce al telefono della Dolce vita, il testone di Amarcord e quello di Casanova, l’ombra del femminile nella città sovrapopolata. Vite che sono frammenti in immagine. Si riduce il freddo dell’esistenza e si apre la coscienza del movimento quotidiano che ci circonda. La sola grandezza a cui aspira Fellini è lo stato caotico delle cose che si affollano, per una volta disobbedienti agli ordini del tempo e della necessitá. Così il prototipo dei creatori, come lo chiama Simenon, rimette in gioco l’uomo, lo chiama a rinascere da se stesso, dal cumulo di ogni storia, lo invita a non sclerotizzarsi. Ciò che Fellini racconta è il caos delle memorie e delle realtà possibili. In questo pathos si è posseduti e si possiede poco: ecco perché si può ridere ululando dolcemente alla luna.

Saggio edito in «Nuova Corvina», n. 18, 2006, pp. 26-35.

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