Di  Gian Mario Anselmi

E’ possibile ben dire che la “letteratura” è in definitiva un “gioco” e che del gioco rispetta le ancestrali e potenti regole e radici che ci sono innate come esseri “narranti” e “immaginativi”. Se teniamo conto di questo allora possiamo comprendere la fascinazione irresistibile di ogni narrazione ben fatta (per fare un parallelo con la “lettura ben fatta” cara a Steiner) su di noi adulti da sempre. “Stiamo al gioco” appunto e come per il bambino anche per noi (tutti noi siamo stati bambini…) questo “stare al gioco” è tremendamente serio e decisivo per la nostra esistenza. Siamo disposti ad accettare senza alcuno stupore che ogni finzione narrativa o scenica sia verità vissuta: l’autore addirittura spesso esibisce proprio la sua “invenzione” forzandone la natura di “verità”. Si pensi alle opere in cui l’autore dice che sono state scritte derivandole da manoscritti ritrovati e veritieri (da Cervantes a Manzoni…); ai romanzi epistolari che mimano le forme delle corrispondenze private; alle dichiarazioni che certe vicende messe in commedia o in novelle attingano a fatti o beffe realmente accaduti (frequentissime nelle nostre commedie del Cinquecento dalla Mandragola alla Venexiana e via discorrendo o nelle raccolte novellistiche di Boccaccio e soprattutto di Bandello); al “libro nel libro” ovvero alle affermazioni che quanto il personaggio sta vivendo è altro rispetto ai “libri” e quindi sembra che siamo immersi in una storia vera anziché in un romanzo. Ad esempio ciò è eclatante in Elena Ferrante specie nel secondo volume della sua tetralogia, Storia del nuovo cognome, volumi, sia detto per inciso, con straordinario effetto di narrato continuo, martellante, straripante e “verosimile” che non poco ha contribuito al successo planetario della scrittrice. La narrazione infinita che oggi ci avvolge ha  radici nell’homo ludens di cui si diceva, nella nostra natura “bambina” (alla Leopardi o alla Pascoli anche) impastata di reminescenze del “gioco” e perciò di festevolezza narrativa (così gioiosamente eclatante nella lirica greca in Bacchilide rispetto alle architetture audaci e “remote” di Pindaro): più la realtà circostante ci pare inafferrabile e al tempo stesso oppressiva più ci affidiamo al narrare come “gioco” serio in cui sospendiamo le nostre remore di cinici e increduli per frequentare invece i mondi dell’immaginario in un impasto tra ansia di libertà, ragione e fantastico che proprio gli illuministi per primi seppero coniugare in modo straordinario. La narrazione, la letteratura, come il gioco, e come era già chiaro a Huizinga, sono parte di una ricerca ultima di libertà che oggi (in una dimensione globale di omologazione asfissiante) ancor più è manifesta e che carica di responsabilità molto grandi, come ben aveva previsto Pasolini, arte ed autori (mai come ai nostri tempi etica ed estetica debbono convivere in un patto di “nuovo umanesimo”).

Tutto ciò è veicolato da qualche anno da un sistema narrativo complesso e multiforme che è in grado proprio per le nuove e sempre più stupefacenti innovazioni informatiche e tecnologiche di ampliare a dismisura il nostro desiderio infantile e adulto al tempo stesso di “storie”, in cui il “libro”, tradizionalmente inteso, di romanzi o poesie è solo uno dei tanti attori in campo. Il libro, infatti, come ben già mostrò Alessandro Baricco ne I barbari (sulla scia di famose pagine di Umberto Eco), oggi è allogato in una serie concatenata di molteplici linguaggi interconnessi (televisivi, figurativi, mediatici, ecc.) ed è lì che si giocherà la battaglia decisiva del suo futuro. Senza spingerci poi troppo indietro nella storia della televisione e dei suoi serials più antichi (e che però non avevano ancora il monopolio narrativo che oggi, grazie ai nuovi media e a internet, fa dilagare le serie TV ovunque), stiamo ad anni più vicini. E un dato ci balza subito all’occhio: se solo si osservano infatti le recenti migliori serie televisive americane (veri capolavori), spesso prodotte dalla HBO, si noterà che la narrativa che le costituisce va scoprendo nuovi territori ma che tali territori riescono ad essere esplorati perché figli della narrativa romanzesca classica per un verso (l’eterno, archetipico Conte di Montecristo…) e per l’altro di una rinata centralità della lingua teatrale e dialogica/filosofica; così da consegnare oggi alla “sceneggiatura” (l’esempio è clamoroso se riferito a Nic Pizzolatto con True detective o a Beau Willimon con House of cards o ai fratelli Coen di Fargo o agli sceneggiatori de Il trono di spade) un ruolo ben più cruciale che nel passato sia filmico che televisivo, un ruolo per altro di matrice tutta “letteraria” spesso perimetrato esplicitamente dall’ordito di grandi classici di riferimento (Dante, Machiavelli, Shakespeare, Nietzsche, Dumas, Tolstoj, Tolkien, Dick..). Il sempre più sofisticato uso, ad esempio, del “punto di vista” nella narrativa filmica e televisiva si dipana su una gamma amplissima: in intreccio tra occhio del regista e della sua cinepresa, occhio del personaggio narrante in prima persona o dei personaggi fra di loro o direttamente con il pubblico secondo una antica prassi teatrale (come accade, ad esempio, in House of cards), occhio di metapersonaggi “alla Tarantino” e così via, è difficile per queste tecniche così ben orchestrate non pensare alla lezione ineguagliabile del gioco raffinatissimo fra i punti di vista dei personaggi in Anna Karenina o, al polo opposto, all’unico, straordinario punto di vista del protagonista della Recherche. Ciò da qualche anno si sta rafforzando anche nelle produzioni italiane della Rai, con una importante riscoperta della centralità della sceneggiatura e delle radici letterarie indispensabili a ogni “narrazione”.

Siamo, in un certo senso, nell’epoca della “narrazione infinita” (categoria che forse sarebbe ben più efficace dell’ormai consunto “postmoderno”) che tutto permea e a tutto si intreccia grazie soprattutto allo sviluppo impressionante dei nuovi media e della Rete e al rimescolamento degli stessi generi nel “gioco della letteratura” e tutto questo in palese contrasto con il dominio nella comunicazione ordinaria e denotativa della brevità e velocità fino al limite della pura enunciazione (whatsapp, twitter, ecc.), brevità comunicativa che nulla ha a che spartire con l’eleganza della “forma breve” per eccellenza ovvero l’aforisma (su cui si vedano i tanti studi ed edizioni per cura di Gino Ruozzi). Le lunghe narrazioni è come se sopperissero a questo abisso di banalità abbreviata e compulsiva tipico delle modalità di fruizione di cellulari, tablet, social. Basti del resto pensare a come il “noir” o “thriller” o “giallo” stessi (ovvero l’”inchiesta” che dir si voglia) si articolino in storie “lunghe” e alberghino al centro di vastissimi territori dell’immaginario ovunque nel mondo in misura senza precedenti, quasi a metafora di una confusa e inquieta ricerca di senso in un mondo che ne appare sempre più privo e dove la scoperta del Male inestirpabile (l’”odio”) è sempre più dolente e terribile (un vero antesignano fu Gadda col suo Pasticciaccio…). E, ancora, il narrare come “latitudine espansa” delle potenzialità insite nella scrittura letteraria ha altresì trovato maestri assoluti a livello mondiale in alcuni narratori americani delle generazioni dei nostri tempi, da Delillo a Pynchon a Foster Wallace a Franzen all’ultimo Paul Auster, solo a citare alcuni dei più noti. E non è casuale che tali narratori a loro volta esplicitamente non possano fare a meno di contaminarsi con narrazioni cinematografiche o televisive (persino sportive!) o con rilevanti filoni figurativi dell’arte americana novecentesca a cominciare da Hopper o da Andy Warhol per pervenire alle forme più metropolitane e radicali di street art (Basquiat, Haring…). Né ancora è casuale che, sempre a partire dagli Stati Uniti, abbia ripreso oggi grande vigore una antica tradizione di narrazione “disegnata”, piena di archetipi letterari di ogni epoca, il graphic novel  (in Italia a lungo definito “fumetto” e con un implicito ed erroneo giudizio riduttivo, così come era accaduto per i “gialli” o per i romanzi “rosa” o per la cosiddetta “letteratura per l’infanzia”, alcuni dei tanti guasti di una spesso vacua e spocchiosa critica letteraria per fortuna ormai tramontata e che non aveva saputo fare proprie neppure le preziose osservazioni di Antonio Gramsci sulla letteratura popolare). A tale filone e ai loro personaggi ed eroi/eroine (ad esempio tutto l’”universo Marvel”) attingono a piene mani, in un gigantesco continuum narrativo, colossali produzioni cinematografiche e televisive specie statunitensi ricche di effetti speciali e quantità vaste di produzioni televisive giapponesi educate dalla gloriosa linea narrativa e grafica dei manga. E la stessa immensa galassia dei sempre più sofisticati videogiochi ha anch’essa i suoi eroi/eroine e le sue “narrazioni” (Tomb Raider…) in bilico tra richiami a personaggi e storie delle narrazioni mitologiche classiche e medievali (il ciclo arturiano evergreen…) e loro ritraduzioni in produzioni cinematografiche a effetti speciali di grande successo. L’impatto di tutto ciò è così rilevante che è possibile ormai da tempo riscontrare anche il processo inverso. Ovvero molti romanzi contemporanei popolari paiono influenzati nel loro ritmo narrativo, nella loro struttura portante (dispositio si direbbe in retorica) e nella delineazione di certi loro personaggi dall’immenso e pervasivo mondo dei media in un inedito crogiuolo (vero melting pot narrativo) di linguaggi fra loro in continuo scambio. È in definitiva quanto esibisce esplicitamente e genialmente nei suoi film (o metafilm?) Quentin Tarantino.

L’arco narrativo che abbiamo delineato è perciò “infinito” e abbraccia tutto l’universo della produzione culturale in senso lato, dal libro alle serie TV ai film ai videogiochi, come si è visto: questa narrazione continua a perpetuare però la dicotomia antica tra novel e romance ovvero tra “verosimile” (potenza inesauribile della geniale categoria aristotelica) e “fantastico”, amplificato quest’ultimo dagli effetti speciali delle nuove tecnologie. Tra questi poli estremi si dipana un brulicare di narrazioni a varia matrice che nutrono l’ansiosa ricerca di “storie” da parte di ogni tipo di pubblico, di tutti noi in sostanza in quell’ottica di “gioco” ancestrale di cui prima discorrevamo. La crisi delle ideologie tradizionali, lo scetticismo (peraltro pericoloso) verso l’agire politico e riformatore con inevitabile sfiducia nel futuro e schiacciamento sul presente (in una sorta di rilettura banalizzata del carpe diem oraziano) pesano molto in questo fenomeno, specie nel mondo occidentale. Il più delle volte infatti lo stesso lettore/spettatore è irresistibilmente attratto sia da storie verosimili al limite dell’iperrealismo anche duro (il libro Gomorra di Saviano con la connessa, fortunata serie televisiva) sia da mondi ed eroi avventurosi e fantastici che lo distolgono da una modalità di vita talora “insostenibile” (il tutto è sempre ben rappresentato ancora una volta da una categoria inventata da Aristotele, sempre lui, ovvero la “catarsi”). Stiamo attenti a non fare facili confusioni però con vecchie etichette. Non siamo per nulla nel primo caso di fronte a un nuovo “neorealismo” come taluni sostengono (e che comporterebbe una lettura tutta ideologica e politica della realtà) ma, lo ribadisco, a una ansiosa ricerca di “verosimile” (si pensi all’ampia galassia thriller) che poco o nulla c’entra con il neorealismo e le sue poetiche e ancor meno con ideologie forti di riferimento, semmai con istanze etiche in senso ampio. Al lato opposto appunto ci si fa affascinare da Guerre stellari (grande riscrittura in chiave di fantascienza del ciclo arturiano..) non per mera “evasione” (certo anche per quello) ma appunto per eccesso di sofferenza quotidiana, di inconoscibilità e di smarrimento di fronte alla complessità di un reale non più codificabile da categorie note (e infatti abbondano anche gli angoscianti filoni narrativi horror o “apocalittici” a partire da un maestro come Stephen King o dai romanzi e “fumetti” di Dylan Dog del nostro Tiziano Sclavi) e da cui si vorrebbe fuggire verso altri mondi, quelli da sempre cari all’immaginario fantastico ed utopico (la lunga durata ad esempio del genere pastorale e di Arcadia i cui esiti antifrastici ancora troviamo, che so, in Zanzotto col Galateo in bosco o in Philip Roth con Pastorale americana) o verso mondi in cui ancora vi sia spazio per qualcosa davvero di ”eroico”.

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