Quando, nel 1962, il quarantaduenne Eric Rohmer fonda insieme al suo giovanissimo amico Barbet Schroeder la casa di produzione Les Films du Losange, la gloriosa stagione della Nouvelle Vague si sta avviando verso il tramonto. Autori come François Truffaut, Jean-Luc Godard e Claude Chabrol, ex colleghi di Rohmer nelle file dei Cahiers du Cinéma, si sono imposti fra i nuovi, grandi nomi del cinema francese con pellicole che hanno attirato l’attenzione della critica e del pubblico internazionali; non ha riscosso altrettanta fortuna Rohmer, la cui opera di debutto, Il segno del leone, viene distribuita con tre anni di ritardo e senza suscitare particolare interesse.

Un anno dopo, Eric Rohmer decide quindi di tornare dietro la macchina da presa con un cortometraggio di poco più di venti minuti di durata, che tuttavia si dimostrerà di importanza capitale per il suo percorso di regista: La boulangère de Monceau, in italiano La fornaia di Monceau. Una piccola produzione girata in perfetta aderenza ai principi del cinéma vérité, con riprese effettuate fra le strade di Parigi, senza alcun set a disposizione. Ed è il ventunenne Barbet Schroeder a prestare il volto (ma non la voce, che è invece quella di Bertrand Tavernier) al protagonista: uno studente di legge che, nel suo tragitto quotidiano, resta sedotto da una ragazza di nome Sylvie (Michèle Girardon), arrivando a rivolgerle la parola nella speranza di ottenere un appuntamento con lei.

Lo spunto narrativo è di apparente banalità, ma Rohmer, grande appassionato e studioso di Alfred Hitchcock, a questo punto inserisce un piccolo mistero: l’improvvisa sparizione di Sylvie. Nel frattempo ecco comparire il personaggio del titolo: Jacqueline (Claudine Soubrier), commessa di una panetteria del quartiere di Monceau che, per lo studente, diventa una tappa fissa nelle proprie ‘investigazioni’ alla ricerca di Sylvie. E quella giovane, che lo tratta con una familiarità via via maggiore, assurgerà per lui a nuovo, possibile oggetto del desierio, in attesa di un ultimo colpo di scena.

Nei ventitré minuti de La fornaia di Monceau si può già individuare una formidabile sintesi degli stilemi e della poetica rohmeriani: a cominciare dalla voce narrante del protagonista, il quale commenta e motiva le proprie scelte, elaborando una sorta di autoanalisi la cui effettiva attendibilità dev’essere stabilita però dallo spettatore. È, in fondo, la natura stessa del cinema di Rohmer, nonché di quel progetto decennale intitolato Sei racconti morali, di cui il cortometraggio in questione costituisce il tassello fondativo: «La mia intenzione non era quella di filmare eventi veri e propri, ma la narrazione che qualcuno fa di essi. La storia, la scelta dei fatti, la loro organizzazione […]. Una delle ragioni per cui questi racconti sono chiamati “morali” è che le azioni fisiche sono quasi completamente assenti: tutto accade nella testa del narratore».

Ecco dunque, condensati nello spazio di un cortometraggio, gli elementi cardine dei futuri Racconti morali: la figura femminile come una costante fonte di attrazione e di ‘tentazione’ (e le tentazioni erotiche sono uno dei nuclei del cinema rohmeriano); la rielaborazione e la riflessione condotte dal protagonista maschile rispetto ad avvenimenti e decisioni che è costretto a fronteggiare; un tentativo di lucidità oggettiva che si infrange però contro il carattere ineluttabilmente soggettivo dei sentimenti. È il “marchio di fabbrica” di quasi tutti i personaggi rohmeriani: voler definire una propria visione del mondo e dei rapporti – in primisquelli fra uomo e donna – senza rendersi conto della fallacia di tale visione. Senza possedere, in sostanza, il distacco necessario a giudicare con autentica obiettività se stessi e i propri comportamenti (da qui il senso dell’aggettivo “morale”).

La fornaia di Monceau, considerato oggi uno dei vertici della sua vasta produzione, Eric Rohmer darà seguito pochi mesi dopo con il mediometraggio La carriera di Suzanne, prima di approdare, a partire dal 1967 (anno dell’Orso d’Argento al Festival di Berlino per La collezionista), ad una rapida e definitiva consacrazione grazie al capolavoro La mia notte con Maud (1969) e ai successivi Il ginocchio di Claire (1970) e L’amore il pomeriggio (1972). Opere che, con quel suo cortometraggio del 1963, hanno intessuto un ideale ‘dialogo’, in un fascinosissimo gioco di echi e di riflessi che percorre tutta la filmografia del maestro francese.

Di Stefano Lo Verme

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